martedì 7 febbraio 2012

Roberto de Mattei: Difendo Mons. Gherardini

Negli ultimi tempi sono iniziati ad apparire pesanti attacchi alla riflessione teologica di mons. Brunero Gherardini sul Concilio Vaticano II e alla storia che io stesso di quell’evento ho proposto.
La discussione non è mai inutile, ma a condizione che segua determinate regole, a cominciare dal rispetto per opinioni diverse dalle proprie. Negli attacchi nei nostri confronti, la violenza e la gratuità delle accuse sembra invece proporzionale alla esiguità degli argomenti.
Mons. Gherardini, il sottoscritto ed anche altre valorosi apologeti, come il padre Serafino Lanzetta F.I., Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, siamo accusati, su alcuni siti web, di essere “criptosedevacantisti”, e veniamo accomunati ai luterani, per la nostra “mentalità protestantizzata”, agli “neognostici pseudo-tradizionalisti”, e ai progressisti, a cui saremmo uniti dall’”orgoglio individuale”. Non intendo per il momento reagire per quanto riguarda la mia persona, ma sento l’obbligo di intervenire in difesa di mons. Brunero Gherardini per un puro dovere di giustizia, prima ancora che di amicizia.
Va ricordato innanzitutto chi è il bersaglio primario di questi sconsiderati attacchi. Mons. Brunero Gherardini, nato a Prato nel 1925, ordinato sacerdote nel 1948, officiale dell’allora Sacra Congregazione dei Seminari, dopo avere avuto la responsabilità dei seminari regionali e diocesani d’Italia, fu chiamato alla Pontificia Università Lateranense, dove, dal 1968, insegnò come ordinario di ecclesiologia e fu decano della Facoltà teologica. Allievo e stretto collaboratore di mons. Antonio Piolanti, è stato membro e responsabile della Pontificia Accademia Teologica Romana e della Pontificia Accademia di S. Tommaso. Direttore della rivista internazionale "Divinitas”, canonico della Basilica Patriarcale di San Pietro, Postulatore, fino allo scorso anno, della Causa di canonizzazione del Beato Pio IX, è noto per essere, oltre che un grande teologo, un sacerdote esemplare, né è mai incorso in alcuna censura teologica o canonica da parte delle autorità ecclesiastiche. Egli ha dedicato tutta la sua vita alla Chiesa e la serve con accentuato fervore in un’età in cui tanti suoi confratelli vivono da tranquilli pensionati ecclesiastici. Basterebbe questo per imporre il rispetto e l’ammirazione nei suoi confronti e, anche nel caso di divergenze di opinioni, ad esigere che egli sia trattato con la deferenza e il rispetto che impongono il suo abito ecclesiastico, la sua carriera accademica, e soprattutto la stima di cui è unanimemente circondato.
Va aggiunto che su alcuni temi inerenti al Concilio Vaticano II, tra le posizioni di mons. Gherardini di un tempo e quelle di oggi si può registrare uno sviluppo e un’esplicitazione, conseguenza di una maturazione del suo pensiero, ma non certo incoerenza e tantomeno contraddizione. Lo stesso non si può dire del suo principale accusatore, il parroco don Pietro Cantoni, autore di uno sgradevole volumetto a cui alcuni suoi discepoli si richiamano esplicitamente nelle loro accuse a mons. Gherardini.
Conosco don Cantoni altrettanto bene di mons. Gherardini, avendo frequentato entrambi fin dagli inizi degli anni Settanta. Ero allora assistente di Augusto Del Noce che mi confidava di considerare mons. Gherardini come il massimo teologo vivente in Italia. Piero Cantoni, nato a Piacenza nel 1950,era un giovane proveniente dal tradizionalismo neopagano. Si convertì grazie anche agli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio predicati dal padre Lodovico Barrielle (1897-1983), maturò una sincera vocazione religiosa ed entrò nel seminario di Ecône dove, nel 1978, fu ordinato sacerdote da mons. Marcel Lefebvre e, per le sue qualità intellettuali, fu nominato professore. Ricordo bene come egli fosse allora affascinato dalle tesi del padre Guérard de Lauriers (1898-1988), noto come autore della "tesi di Cassiciacum", secondo cui, a partire dal 1965, i Papi sono tali solo “materialiter” (nell’accezione scolastica del termine). Il padre de Lauriers riteneva, a differenza di mons. Lefebvre, che un Concilio non può sbagliare nelle sue decisioni: dal momento che alcuni documenti conciliari erano in oggettiva e indubbia contraddizione col Magistero perenne della Chiesa, il Papa che li aveva promulgati, e i successori che li avevano accettati, avevano perso con ciò, almeno sul piano formale, la loro suprema autorità. In coerenza con questa tesi teologica, padre de Lauriers si allontanò da mons. Lefebvre e nel 1981 fu consacrato vescovo, validamente ma illecitamente, dall'arcivescovo emerito di Hué, il vietnamita Pierre Martin Ngô Đình Thục (1897-1984).
Don Piero Cantoni non si sentì di fare l’arrischiato passo che, dietro mons. de Lauriers, facevano alcuni suoi confratelli, ma non rinunciò allo schema teologico assorbito dal domenicano francese, capovolgendone i termini. Riconoscendo la suprema autorità del Papa, ne concluse che i documenti che egli aveva fino ad allora ritenuto contraddittori con il Magistero della Chiesa dovessero invece essere considerati coerenti con esso. La semplicistica equazione Concilio=infallibilità spingeva verso il sedevacantismo o verso il conciliarismo "vaticansecondista". In quello stesso 1981, don Cantoni lasciò anch’egli il seminario di Ecône con un gruppo di seminaristi italiani, fu incardinato nella diocesi di Apuania, divenne parroco e si iscrisse alla Università Lateranense, dove fu accolto, con grande carità, proprio da mons. Gherardini, laureandosi sotto la sua guida con una ricerca sul "Novus Ordo Missae". A partire dal 1981, la rivista di Alleanza Cattolica, “Cristianità”, che fin dalla sua nascita, nel 1973, aveva ospitato scritti di mons. Marcel Lefebvre, mons. Antonio de Castro Mayer ed altri autori tradizionalisti, virò di rotta, sotto l'ispirazione teologica di don Cantoni. Mons. Lefebvre, e con lui la maggior parte del mondo detto “tradizionalista”, mantenne una posizione diversa sia dal “sedevacantismo” che dal “conciliarismo”, a cui don Cantoni si era allineato. Con le consacrazioni episcopali, valide ma illecite, del 4 giugno 1988, mons. Lefebvre si pose tuttavia in una posizione canonicamente irregolare, che è attualmente al centro dei colloqui tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede.
Ogni itinerario esistenziale è rispettabile, soprattutto se è sofferto, ma chi ha capovolto le sue posizioni non può rivolgere a chi è stato coerente l’accusa, che a mons. Gherardini oggi è indirizzata, di essere "ambiguo" o “ondivago”. Ma soprattutto nessuno può sostituirsi alla suprema autorità della Chiesa nel giudicare, su questioni non definite, i propri fratelli nella fede. Vi sono alcuni dogmi, come quelli dell’Immacolata Concezione che sono infallibilmente definiti dal Magistero straordinario della Chiesa. Chi li negasse dovrebbe essere considerato, senza appello, eretico. Esistono altre verità, di ordine teologico, come quella dell’invalidità dell’ordinazione sacerdotale delle donne che non possono essere negate senza cadere nell’eresia o nell’errore, perché, pur non essendo state mai definite dal Magistero straordinario, sono state proposte infallibilmente dal magistero ordinario e universale. Vi sono però altri punti su cui la discussione teologica è aperta quali, ad esempio, il valore teologico da attribuire alla dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae o alla riforma liturgica di Paolo VI. In questi casi il Magistero straordinario non si è pronunciato e mancano le condizioni richieste dal Vaticano I per l’infallibilità del Magistero ordinario. La discussione è dunque libera e aperta.
La Chiesa, nel corso della sua storia, ha sempre conosciuto dispute teologiche, anche serrate. Fino a che una verità non è definita dalla Chiesa, è lecito difendere la propria opinione, anche con calore, perché abbiamo l’obbligo di sostenere ciò che ci sembra vero. Non abbiamo però il diritto di “scomunicare” chi la pensa in maniera diversa da noi, solo perché non ne condividiamo le opinioni. Se mons. Gherardini, padre Lanzetta o il prof. de Mattei sbagliano, lasciamo che sia la Chiesa a condannarli. Ma se mons. Gherardini vive in Vaticano e scrive sull’"Osservatore Romano", vuol dire che le sue opinioni, anche se non necessariamente condivise, sono quantomeno tollerate dalle autorità ecclesiastiche. E come potrebbero non esserlo, quando sono tollerate posizioni, queste sì oggettivamente eretiche, come quelle dei parroci austriaci o tedeschi che reclamano l’ordinazione delle donne e il matrimonio dei preti? Non meraviglia che le posizioni di mons. Gherardini siano invise al fronte progressista. Ma perché tanta avversione da parte di chi progressista non è? Perché si concentra il fuoco su chi difende la Tradizione, invece di riunire tutte le proprie forze per combattere chi questa Tradizione nega?
Forse gli accusatori di mons. Gherardini, che si propongono come gli unici interpreti del Magistero della Chiesa, vorrebbero che l’unica alternativa alla loro accettazione incondizionata del Vaticano II fosse il sedevacantismo o, quantomeno, la posizione di irregolarità canonica in cui si trova attualmente la Fraternità San Pio X. L'accusa di "criptosedevacantismo" fa torto all'intelligenza e all'onestà di chi la pronuncia. E per quanto riguarda quella di "lefebvrismo", lo stesso mons. Gherardini ha ribadito, ancora recentemente, con chiarezza, le sue posizioni, «Condivido con la Fraternità alcune idee di fondo: il senso della Tradizione viva perché ininterrotta, la “romanità” del Fondatore, la critica all’attuale involuzione mondana, ed altro ancora. Non però l’autonomia con cui la Fraternità “conosce” cause matrimoniali, scioglie matrimoni, riduce allo stato laicale: queste son competenze della Chiesa e dei suoi tribunali, non d’una “società sacerdotale”, oltretutto non ancora canonicamente riconosciuta.»
In una parola, condividere alcune posizioni dottrinali non significa essere corresponsabile delle scelte di vita canonica. Il grande merito di mons. Gherardini è proprio quello di aver dimostrato che si può svolgere una seria e obiettiva critica di alcuni documenti del Concilio Vaticano II rimanendo pienamente all’interno della Chiesa cattolica, rispettandone le supreme Autorità e lasciando ad esse il compito di risolvere la questione in maniera definitoria. Fino a quando ciò non avviene la discussione resta lecita e dovrebbe avvenire in maniera pacata e rispettosa. Non può essere definito “sedevacantista” o“protestante” chi analizza criticamente documenti, atti o omissioni dell’autorità ecclesiastica non coperti dall’infallibilità, ma chi nega, di principio o di fatto, l’esistenza di questa autorità. E questo non è il caso né di mons. Gherardini né degli altri autori sotto accusa, che in altri tempi sarebbero stati definiti “ultramontani” proprio per il loro attaccamento alla Autorità apostolica e alla Sede Romana. Le accuse che ci sono rivolte ledono il nostro onore di cattolici e costituiscono una ingiusta denigrazione, che comporta un peccato contro la giustizia, in sé grave. E’ in nome della giustizia violata che scrivo queste righe e che chiedo che siano modificati i termini della discussione in atto. In caso contrario nessuno potrà sottrarsi al diritto a difendersi e ci troveremo di fronte a controversie dolorose, ma forse purificatrici.

Roberto de Mattei

Roberto de Mattei: Difendo Mons. Gherardini

Negli ultimi tempi sono iniziati ad apparire pesanti attacchi alla riflessione teologica di mons. Brunero Gherardini sul Concilio Vaticano II e alla storia che io stesso di quell’evento ho proposto.
La discussione non è mai inutile, ma a condizione che segua determinate regole, a cominciare dal rispetto per opinioni diverse dalle proprie. Negli attacchi nei nostri confronti, la violenza e la gratuità delle accuse sembra invece proporzionale alla esiguità degli argomenti.
Mons. Gherardini, il sottoscritto ed anche altre valorosi apologeti, come il padre Serafino Lanzetta F.I., Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, siamo accusati, su alcuni siti web, di essere “criptosedevacantisti”, e veniamo accomunati ai luterani, per la nostra “mentalità protestantizzata”, agli “neognostici pseudo-tradizionalisti”, e ai progressisti, a cui saremmo uniti dall’”orgoglio individuale”. Non intendo per il momento reagire per quanto riguarda la mia persona, ma sento l’obbligo di intervenire in difesa di mons. Brunero Gherardini per un puro dovere di giustizia, prima ancora che di amicizia.
Va ricordato innanzitutto chi è il bersaglio primario di questi sconsiderati attacchi. Mons. Brunero Gherardini, nato a Prato nel 1925, ordinato sacerdote nel 1948, officiale dell’allora Sacra Congregazione dei Seminari, dopo avere avuto la responsabilità dei seminari regionali e diocesani d’Italia, fu chiamato alla Pontificia Università Lateranense, dove, dal 1968, insegnò come ordinario di ecclesiologia e fu decano della Facoltà teologica. Allievo e stretto collaboratore di mons. Antonio Piolanti, è stato membro e responsabile della Pontificia Accademia Teologica Romana e della Pontificia Accademia di S. Tommaso. Direttore della rivista internazionale "Divinitas”, canonico della Basilica Patriarcale di San Pietro, Postulatore, fino allo scorso anno, della Causa di canonizzazione del Beato Pio IX, è noto per essere, oltre che un grande teologo, un sacerdote esemplare, né è mai incorso in alcuna censura teologica o canonica da parte delle autorità ecclesiastiche. Egli ha dedicato tutta la sua vita alla Chiesa e la serve con accentuato fervore in un’età in cui tanti suoi confratelli vivono da tranquilli pensionati ecclesiastici. Basterebbe questo per imporre il rispetto e l’ammirazione nei suoi confronti e, anche nel caso di divergenze di opinioni, ad esigere che egli sia trattato con la deferenza e il rispetto che impongono il suo abito ecclesiastico, la sua carriera accademica, e soprattutto la stima di cui è unanimemente circondato.
Va aggiunto che su alcuni temi inerenti al Concilio Vaticano II, tra le posizioni di mons. Gherardini di un tempo e quelle di oggi si può registrare uno sviluppo e un’esplicitazione, conseguenza di una maturazione del suo pensiero, ma non certo incoerenza e tantomeno contraddizione. Lo stesso non si può dire del suo principale accusatore, il parroco don Pietro Cantoni, autore di uno sgradevole volumetto a cui alcuni suoi discepoli si richiamano esplicitamente nelle loro accuse a mons. Gherardini.
Conosco don Cantoni altrettanto bene di mons. Gherardini, avendo frequentato entrambi fin dagli inizi degli anni Settanta. Ero allora assistente di Augusto Del Noce che mi confidava di considerare mons. Gherardini come il massimo teologo vivente in Italia. Piero Cantoni, nato a Piacenza nel 1950,era un giovane proveniente dal tradizionalismo neopagano. Si convertì grazie anche agli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio predicati dal padre Lodovico Barrielle (1897-1983), maturò una sincera vocazione religiosa ed entrò nel seminario di Ecône dove, nel 1978, fu ordinato sacerdote da mons. Marcel Lefebvre e, per le sue qualità intellettuali, fu nominato professore. Ricordo bene come egli fosse allora affascinato dalle tesi del padre Guérard de Lauriers (1898-1988), noto come autore della "tesi di Cassiciacum", secondo cui, a partire dal 1965, i Papi sono tali solo “materialiter” (nell’accezione scolastica del termine). Il padre de Lauriers riteneva, a differenza di mons. Lefebvre, che un Concilio non può sbagliare nelle sue decisioni: dal momento che alcuni documenti conciliari erano in oggettiva e indubbia contraddizione col Magistero perenne della Chiesa, il Papa che li aveva promulgati, e i successori che li avevano accettati, avevano perso con ciò, almeno sul piano formale, la loro suprema autorità. In coerenza con questa tesi teologica, padre de Lauriers si allontanò da mons. Lefebvre e nel 1981 fu consacrato vescovo, validamente ma illecitamente, dall'arcivescovo emerito di Hué, il vietnamita Pierre Martin Ngô Đình Thục (1897-1984).
Don Piero Cantoni non si sentì di fare l’arrischiato passo che, dietro mons. de Lauriers, facevano alcuni suoi confratelli, ma non rinunciò allo schema teologico assorbito dal domenicano francese, capovolgendone i termini. Riconoscendo la suprema autorità del Papa, ne concluse che i documenti che egli aveva fino ad allora ritenuto contraddittori con il Magistero della Chiesa dovessero invece essere considerati coerenti con esso. La semplicistica equazione Concilio=infallibilità spingeva verso il sedevacantismo o verso il conciliarismo "vaticansecondista". In quello stesso 1981, don Cantoni lasciò anch’egli il seminario di Ecône con un gruppo di seminaristi italiani, fu incardinato nella diocesi di Apuania, divenne parroco e si iscrisse alla Università Lateranense, dove fu accolto, con grande carità, proprio da mons. Gherardini, laureandosi sotto la sua guida con una ricerca sul "Novus Ordo Missae". A partire dal 1981, la rivista di Alleanza Cattolica, “Cristianità”, che fin dalla sua nascita, nel 1973, aveva ospitato scritti di mons. Marcel Lefebvre, mons. Antonio de Castro Mayer ed altri autori tradizionalisti, virò di rotta, sotto l'ispirazione teologica di don Cantoni. Mons. Lefebvre, e con lui la maggior parte del mondo detto “tradizionalista”, mantenne una posizione diversa sia dal “sedevacantismo” che dal “conciliarismo”, a cui don Cantoni si era allineato. Con le consacrazioni episcopali, valide ma illecite, del 4 giugno 1988, mons. Lefebvre si pose tuttavia in una posizione canonicamente irregolare, che è attualmente al centro dei colloqui tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede.
Ogni itinerario esistenziale è rispettabile, soprattutto se è sofferto, ma chi ha capovolto le sue posizioni non può rivolgere a chi è stato coerente l’accusa, che a mons. Gherardini oggi è indirizzata, di essere "ambiguo" o “ondivago”. Ma soprattutto nessuno può sostituirsi alla suprema autorità della Chiesa nel giudicare, su questioni non definite, i propri fratelli nella fede. Vi sono alcuni dogmi, come quelli dell’Immacolata Concezione che sono infallibilmente definiti dal Magistero straordinario della Chiesa. Chi li negasse dovrebbe essere considerato, senza appello, eretico. Esistono altre verità, di ordine teologico, come quella dell’invalidità dell’ordinazione sacerdotale delle donne che non possono essere negate senza cadere nell’eresia o nell’errore, perché, pur non essendo state mai definite dal Magistero straordinario, sono state proposte infallibilmente dal magistero ordinario e universale. Vi sono però altri punti su cui la discussione teologica è aperta quali, ad esempio, il valore teologico da attribuire alla dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae o alla riforma liturgica di Paolo VI. In questi casi il Magistero straordinario non si è pronunciato e mancano le condizioni richieste dal Vaticano I per l’infallibilità del Magistero ordinario. La discussione è dunque libera e aperta.
La Chiesa, nel corso della sua storia, ha sempre conosciuto dispute teologiche, anche serrate. Fino a che una verità non è definita dalla Chiesa, è lecito difendere la propria opinione, anche con calore, perché abbiamo l’obbligo di sostenere ciò che ci sembra vero. Non abbiamo però il diritto di “scomunicare” chi la pensa in maniera diversa da noi, solo perché non ne condividiamo le opinioni. Se mons. Gherardini, padre Lanzetta o il prof. de Mattei sbagliano, lasciamo che sia la Chiesa a condannarli. Ma se mons. Gherardini vive in Vaticano e scrive sull’"Osservatore Romano", vuol dire che le sue opinioni, anche se non necessariamente condivise, sono quantomeno tollerate dalle autorità ecclesiastiche. E come potrebbero non esserlo, quando sono tollerate posizioni, queste sì oggettivamente eretiche, come quelle dei parroci austriaci o tedeschi che reclamano l’ordinazione delle donne e il matrimonio dei preti? Non meraviglia che le posizioni di mons. Gherardini siano invise al fronte progressista. Ma perché tanta avversione da parte di chi progressista non è? Perché si concentra il fuoco su chi difende la Tradizione, invece di riunire tutte le proprie forze per combattere chi questa Tradizione nega?
Forse gli accusatori di mons. Gherardini, che si propongono come gli unici interpreti del Magistero della Chiesa, vorrebbero che l’unica alternativa alla loro accettazione incondizionata del Vaticano II fosse il sedevacantismo o, quantomeno, la posizione di irregolarità canonica in cui si trova attualmente la Fraternità San Pio X. L'accusa di "criptosedevacantismo" fa torto all'intelligenza e all'onestà di chi la pronuncia. E per quanto riguarda quella di "lefebvrismo", lo stesso mons. Gherardini ha ribadito, ancora recentemente, con chiarezza, le sue posizioni, «Condivido con la Fraternità alcune idee di fondo: il senso della Tradizione viva perché ininterrotta, la “romanità” del Fondatore, la critica all’attuale involuzione mondana, ed altro ancora. Non però l’autonomia con cui la Fraternità “conosce” cause matrimoniali, scioglie matrimoni, riduce allo stato laicale: queste son competenze della Chiesa e dei suoi tribunali, non d’una “società sacerdotale”, oltretutto non ancora canonicamente riconosciuta.»
In una parola, condividere alcune posizioni dottrinali non significa essere corresponsabile delle scelte di vita canonica. Il grande merito di mons. Gherardini è proprio quello di aver dimostrato che si può svolgere una seria e obiettiva critica di alcuni documenti del Concilio Vaticano II rimanendo pienamente all’interno della Chiesa cattolica, rispettandone le supreme Autorità e lasciando ad esse il compito di risolvere la questione in maniera definitoria. Fino a quando ciò non avviene la discussione resta lecita e dovrebbe avvenire in maniera pacata e rispettosa. Non può essere definito “sedevacantista” o“protestante” chi analizza criticamente documenti, atti o omissioni dell’autorità ecclesiastica non coperti dall’infallibilità, ma chi nega, di principio o di fatto, l’esistenza di questa autorità. E questo non è il caso né di mons. Gherardini né degli altri autori sotto accusa, che in altri tempi sarebbero stati definiti “ultramontani” proprio per il loro attaccamento alla Autorità apostolica e alla Sede Romana. Le accuse che ci sono rivolte ledono il nostro onore di cattolici e costituiscono una ingiusta denigrazione, che comporta un peccato contro la giustizia, in sé grave. E’ in nome della giustizia violata che scrivo queste righe e che chiedo che siano modificati i termini della discussione in atto. In caso contrario nessuno potrà sottrarsi al diritto a difendersi e ci troveremo di fronte a controversie dolorose, ma forse purificatrici.

Roberto de Mattei

sabato 23 gennaio 2010

RECENSIONE di Piero Vassallo a LA MILIZIA DELL'ARCANGELO

Frutto dell’infedeltà al magistero cattolico e ai dogmi confermati dal Vaticano II, lo spirito del concilio ha propagato il buonismo, idea di bontà contraffatta e lanciata da teologi spericolati verso il lassismo, il relativismo e l’ignavia “de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio” (Inf, III, 37-38).
Di qui l’attualità della riflessione di Raffaele Ragni su San Michele Arcangelo, creatura fiammante di carità e perciò degna di amministrare la giustizia indefettibile di Dio.
Raffaele Ragni, autore del saggio “La milizia dell’Arcangelo”, pubblicato in questi giorni da Solfanelli in Chieti, è un giovane e brillante studioso di scienze religiose, che professa una fede senza cedimenti alle sterili mode di passaggio sulla scena del giornalismo teologico.
Roberto De Mattei, autore di una puntuale introduzione al testo, sostiene che Ragni “ci introduce, con una vasta conoscenza delle fonti teologiche, letterarie e iconografiche, nel mistero angelico, che può aiutarci a meglio comprendere ed affrontare le grandi sfide dei nostri tempi”.
La contemplazione del mistero angelico fa scendere la perfetta luce della sapienza cristiana sulla creazione di un mondo – questo mondo - diverso dal migliore dei mondi possibili, che ispira le desolanti elucubrazioni dei sofisti e inquina l’immaginazione del debolismo teologizzante.
“I buoni spiriti, rammenta infatti l’autore, rafforzano la percezione di Dio e la coscienza della sua presenza. Aiutano il senso comune a conoscere la bellezza e l’armonia del creato, ispirano alla fantasia immagini rassicuranti … sostengono la memoria nel richiamare le esperienze positive della nostra vita”.
Ragni confuta inoltre le mitologie – attualizzate da romanzieri esoterici e da cinematografari avventurosi – intorno alla tenebrosa divinità di Lucifero e ristabilisce la verità: “Lucifero è un angelo decaduto. Non è un dio malefico, come quelli che figurano nella religioni politeiste”.
Opportuna è infine le messa a punto di Ragni, sui confini dell’ecumenismo ebraicizzante. Gli affreschi del duomo di Marcianise, che rappresentano Melchisedek figura del Redentore, rivelano, infatti la preesistenza di Cristo rispetto ad Abramo: “con la nuova alleanza, soltanto chi crede nel Figlio di Dio e segue i suoi comandamenti è libero dalla schiavitù del peccato ed ottiene la salvezza eterna. La discendenza razziale da Abramo, pertanto, non determina alcun privilegio”.

http://lariscossacristiana-libri.blogspot.com/2010/01/raffaele-ragni-la-milizia-dellarcangelo.html

domenica 15 novembre 2009

Novità: LA MILIZIA DELL'ARCANGELO



Raffaele Ragni
LA MILIZIA DELL'ARCANGELO
Presentazione di Roberto de Mattei

Michele è un grido di battaglia. È la lotta contro una cospirazione malefica. Esprime una scelta incondizionata, libera e irrevocabile, quella di combattere per l’ordine divino. È una sfida personale lanciata in forma quasi impersonale, una volontà eroica che diventa nome ed esempio. La luce e le tenebre si separano. La guerra e il guerriero s’identificano. Quel grido diventa nome, e quindi missione, di chi lo pronuncia e di chi lo segue. Michele è il principe degli angeli. Michele è la sua milizia.


Raffaele Ragni è laureato in scienze politiche e studente in scienze religiose.
Come giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi scritti — monografie, saggi, articoli — su temi di politica ed economia, in particolare banche, globalizzazione, localismo. Scrive per il quotidiano "Rinascita". Collabora con le riviste "Africana" e "Radici cristiane".
Ha approfondito gli studi di angelologia nell'Opus Sanctorum Angelorum, collegata all'Ordine dei Canonici Regolari della Santa Croce, e nell'associazione culturale Milizia di San Michele Arcangelo, fondata da don Marcello Stanzione.

Raffaele Ragni
LA MILIZIA DELL'ARCANGELO
Presentazione di Roberto de Mattei
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-78-2]
Pagg. 112 - € 8,00


domenica 31 maggio 2009

RECENSIONE su Radici Cristiane

Sbrigativamente liquidata come una questione puramente “formale” o “di lingua”, la valorizzazione della liturgia tradizionale è un punto che da decenni investe la Chiesa: già prima del Concilio Vaticano II, infatti, alcune frange progressiste, supportate da una cultura laica e laicista (la stessa che adesso attacca il motu proprio Summorum Pontificum), chiedevano una traduzione del messale. Si arrivò al nuovo messale, che però non si limitò a tradurre quello precedente, ma lo modificò completamente, tra l’altro abolendo di fatto il latino (ma non, stranamente, le parti in greco e in ebraico, quasi che ai fedeli fosse più comprensibile il significato di “Kyrie eleison” che di “Deo gratias”).

Roberto de Mattei ripercorre le vicende che portarono al cambiamento, sottolineando come i primi avversari dell’uso del latino siano sempre stati i protestanti, nemici di quella visione “verticale” (simbolizzata anche e soprattutto dall’altare tradizionale) e favorevoli ad una visione “orizzontale” (che trova un suo corrispettivo nell’altare moderno, mutuato dalla tavola eucaristica luterana – ma l’intero Novus ordo Missae nacque per favorire una forma di incontro liturgico con i non cattolici, riuscendo, di fatto, solo provocare una frattura interna al cattolicesimo): una visione “orizzontale” che ha quasi necessariamente consentito una serie di abusi che sarebbero stati impensabili con il vecchio rito.

Sono i risultati della “svolta antropologica” della nuova teologia, quella che preparò il Vaticano II e ne gestì l’applicazione. È l’inversione del rapporto tra lex credendi e lex orandi (in una visione corretta, è quest’ultima a dover discendere da quella e non viceversa), è la desacralizzazione del rito – che passa necessariamente attraverso l’abolizione del latino – con la colpevole rinuncia a ogni forma di trascendenza che ha gli stessi presupposti dell’apertura a sinistra che non interruppe la persecuzione comunista del cattolicesimo e favorì la migrazione dei cattolici verso il comunismo.

Certo, il nuovo rito è più comprensibile: ma dato che la messa non è una conferenza o uno spettacolo, l’importante è comprendere l’essenza (e non la forma) del sacrificio eucaristico e parteciparvi interiormente e non mediante canti o gesti esteriori.


http://www.radicicristiane.it/libro.php/id/90/Roberto%20de%20Mattei/La-liturgia-della-Chiesa-nell'epoca-della-secolarizzazione

RECENSIONE su Radici Cristiane

Sbrigativamente liquidata come una questione puramente “formale” o “di lingua”, la valorizzazione della liturgia tradizionale è un punto che da decenni investe la Chiesa: già prima del Concilio Vaticano II, infatti, alcune frange progressiste, supportate da una cultura laica e laicista (la stessa che adesso attacca il motu proprio Summorum Pontificum), chiedevano una traduzione del messale. Si arrivò al nuovo messale, che però non si limitò a tradurre quello precedente, ma lo modificò completamente, tra l’altro abolendo di fatto il latino (ma non, stranamente, le parti in greco e in ebraico, quasi che ai fedeli fosse più comprensibile il significato di “Kyrie eleison” che di “Deo gratias”).

Roberto de Mattei ripercorre le vicende che portarono al cambiamento, sottolineando come i primi avversari dell’uso del latino siano sempre stati i protestanti, nemici di quella visione “verticale” (simbolizzata anche e soprattutto dall’altare tradizionale) e favorevoli ad una visione “orizzontale” (che trova un suo corrispettivo nell’altare moderno, mutuato dalla tavola eucaristica luterana – ma l’intero Novus ordo Missae nacque per favorire una forma di incontro liturgico con i non cattolici, riuscendo, di fatto, solo provocare una frattura interna al cattolicesimo): una visione “orizzontale” che ha quasi necessariamente consentito una serie di abusi che sarebbero stati impensabili con il vecchio rito.

Sono i risultati della “svolta antropologica” della nuova teologia, quella che preparò il Vaticano II e ne gestì l’applicazione. È l’inversione del rapporto tra lex credendi e lex orandi (in una visione corretta, è quest’ultima a dover discendere da quella e non viceversa), è la desacralizzazione del rito – che passa necessariamente attraverso l’abolizione del latino – con la colpevole rinuncia a ogni forma di trascendenza che ha gli stessi presupposti dell’apertura a sinistra che non interruppe la persecuzione comunista del cattolicesimo e favorì la migrazione dei cattolici verso il comunismo.

Certo, il nuovo rito è più comprensibile: ma dato che la messa non è una conferenza o uno spettacolo, l’importante è comprendere l’essenza (e non la forma) del sacrificio eucaristico e parteciparvi interiormente e non mediante canti o gesti esteriori.


http://www.radicicristiane.it/libro.php/id/90/Roberto%20de%20Mattei/La-liturgia-della-Chiesa-nell'epoca-della-secolarizzazione

giovedì 30 aprile 2009

RECENSIONE di Daniele Raineri (Il Foglio, 30/04/2009)

L’argomento del pamphlet è di quelli densi: “La liturgia della chiesa nell’epoca della secolarizzazione”. Sotto c’è un problema che, raccontato in breve, è questo: la chiesa si è lasciata turbare da un’ansia illusoria di rinnovamento e ha modificato la propria liturgia. Ma il gioco non è valso la candela di cera. Ha abbandonato l’eterno per incontrare il proprio tempo, ha deviato dalla tradizione per abbracciare la società del progressismo: e dopo, con orrore, che cosa ha scoperto? Che il suo è stato l’abbraccio catastrofico con un’età postmoderna già imputridita all’interno e che all’esterno porta segni sempre più evidenti di fallimento. Ora rimediare non sarà facile. La chiesa si è allontanata dalle proprie premesse più salde, si è in parte tramutata in una versione light di se stessa per dimostrarsi non-passatista e ha indebolito il suo messaggio più autentico e attraente. Lo prova la crisi delle vocazioni religiose con tutta la forza dei fatti: la Riforma del Concilio non l’ha risolta, ma anzi l’ha decisamente aggravata. Per citare Joseph Ratzinger: “Quello che sapevamo solo teoreticamente è diventato per noi esperienza concreta: la chiesa sussiste e cade con la liturgia”.
Nella storia recentissima della chiesa c’è stato quindi un Prima, quando ancora questa crisi poteva essere evitata. Ma a noi tocca vivere nel Dopo: nel tempo presente, quando ormai la crisi deve essere affrontata. Roberto de Mattei – “sono uno storico, un cattolico laico che vive però con partecipazione i problemi della chiesa” – propone allora il ritorno alla tradizione come antidoto all’idea, filtrata all’interno della chiesa, che la secolarizzazione è comunque un processo storico irreversibile, e quindi, poiché irreversibile, anche “vero”. E avanza un progetto di risacralizzazione della società: dove “l’esperienza di sacro” di cui la società ha disperatamente bisogno si raggiunge attraverso il sacrificio e lo spirito di penitenza. “Al principio dell’edonismo e dell’autocelebrazione dell’Io che costituisce il nucleo del processo rivoluzionario plurisecolare che aggredisce la nostra società – scrive De Mattei – bisogna contrapporre il principio vissuto del sacrificio”.
Il capitolo iniziale sull’abbandono del latino durante la liturgia, argomento di una delle tre conferenze da cui è tratto questo pamphlet, è il manifesto convincente del Grande equivoco. Credevamo di essere moderni e anche di farvi un favore, abbiamo invece sperperato il nostro tesoro comune. Il latino non è stato abolito dal Concilio – come si crede grossolanamente – ma non è più usato, anche se una costituzione apostolica del 1962, la Veterum Sapientia, raccomanda il contrario con precise disposizioni. Eppure il latino era per sua natura la lingua della chiesa, perché possiede tutte le caratteristiche che servono. E’ lingua universale, che supera i confini delle nazioni. Si può ribattere che non è più in uso – ma per De Mattei si tratterebbe di un’obiezione povera. Una lingua non muore quando non è parlata, ma quando svanisce dalla cultura e dalla memoria di un popolo. Altrimenti, e per assurdo, dovremmo chiamare lingue morte anche l’ebraico, risorto nel Ventesimo secolo con il sionismo, e l’arabo classico, che oggi è parlato soltanto in alcuni contesti formali. Il latino è una lingua stabile dal punto di vista lessicale e grammaticale, quindi è anche un vettore solido, capace di sfidare il passare dei secoli e di conservare l’integrità e l’immutabilità della dottrina cattolica. Il latino è infine lingua sacra: la lingua della liturgia tra l’assemblea e Dio. E non importa afferrarne tutte le parole: la liturgia non è orizzontale, non lega i fedeli tra loro, ma è verticale, è diretta verso Dio. Come dice al linguista Beccaria la vecchietta alzando il dito verso il cielo, l’importante è che capisca lui.


di Daniele Raineri
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